cm. 24 x 17, pp. 256, brossura, in ottime condizioni.
L’Italia è un paese strategico che rifiuta di esserlo. Dopo più di un secolo e mezzo, il nostro Stato unitario resta un adolescente geopolitico. Puer aeternus, fragile e perennemente incompiuto, consegnato alle altrui scelte. Peter Pan della scena internazionale, in fuga da se stesso «perché ho sentito papà e mamma parlare di quello che sarei dovuto diventare quando fossi diventato uomo». Anelante le irripetibili liturgie del tempo ordinato, quando gli assi cartesiani della guerra fredda ci assegnavano il posto a tavola, risparmiandoci di sceglierlo. O fantasticante armoniche Europe, in cui serenamente sciogliersi in fraternità con i vicini. Fra l’essere e il non essere questo paese preferisce essere stato. Disposto a spezzarsi pur di non piegarsi alla necessità di partecipare allo strategico mercato della potenza sulla base dei propri interessi. Tutto, pur di non decidere. Per paradosso, l’inconsistenza soggettiva moltiplica l’oggettiva importanza dell’Italia. Ci sono infatti tre modi di contare in geopolitica: perché sei una potenza; perché servi a una o più potenze; perché puoi danneggiare potenze rilevanti. Noi italiani abbiamo disastrosamente sperimentato, tra fine Ottocento e metà Novecento, l’impossibilità di aderire al primo archetipo. Nei successivi decenni bipolari abbiamo trasformato il nostro valore d’uso per gli Stati Uniti d’America in rendita geopolitica, in omaggio al paradigma secondo. Oggi siamo prezzati per la somma di ciò che residua di quella rendita e dei guasti che la nostra labilità statuale può provocare alle architetture euroatlantiche. Tertium datur: la potenza dell’impotenza. Siamo mina vagante. In caso d’esplosione, l’onda d’urto non investirebbe solo il nostro intorno ma toccherebbe assetti ed equilibri globali. Ciò per la massa critica della Penisola, determinata dalla collocazione geografica, dalle dimensioni economiche e demografiche e, non ultimo, dall’ospitare il centro di una religione a vocazione universale. Tutto al netto di scelte strategiche che istintivamente schiviamo. Tanto che evitiamo di ammettere a noi stessi le responsabilità che ci derivano dalla nostra peculiarissima condizione.