cm. 31 x 24,5, pp. 128, copertina rigida con sovraccoperta, in ottime condizioni.
Ogni volta torno con piacere a guardare l’opera di Carlo Sbisà, ma provo una sottile paura nello scriverne: paura di rovinare l’incanto di un’arte che ti viene incontro diretta e sincera nella sua immediata qualità, forte di un mestiere ineccepibile, arcana nel suo dire cose che pensavamo di aver dimenticato. E così non vorrei che lo scritto ne offuscasse la bellezza, non vorrei che le parole, nel loro presuntuoso sforzo di descrizione, rompessero la magia. Ma tant’è, e allora banalmente comincerò col dire ciò che i critici non dicono più, e cioè che i disegni di Sbisà sono molto belli. Si ha paura ormai ad usare la parola “bello”, perché nell’incapacità di definirne e quantificarne il senso, si è preferito abbandonare l’impresa e bandire questo aggettivo dal vocabolario critico. Ma credo che chiunque, al di là di una univoca definizione del termine, non possa fare a meno di notare come la sapienza del tratto, la purezza delle linee unita all’energia del ductus facciano della maggior parte di questi disegni dei piccoli capolavori, degni di essere paragonati alle cosiddette “opere maggiori”.