cm. 20 x 11,5, pp. 174, brossura, in buone condizioni.
Negli anni che precedono la dissoluzione dell’Impero asburgico, la città-porto di Trieste rappresenta, tra i grandi centri urbani della Monarchia, la maggior concentrazione di proletariato instabile, privo di qualifica ed occupazione precisa. Nel 1902, lo stato permanente di tensione sociale, inevitabile portato di tale “modello” di proletariato urbano, esplode nel primo sciopero generale della storia dell’Impero, costato 14 morti. Questa classe lavoratrice è il soggetto e il protagonista del libro. Sulla base di una ricca documentazione statistica e attraverso l’uso di fonti “eterodosse”, quali rapporti degli ufficiali sanitari, memorie, romanzi d’ambiente, cronaca nera, l’autrice ricostruisce uno spaccato dell’esistenza collettiva del proletariato urbano: “il modo in cui la classe lavoratrice si riproduce – da una generazione all’altra e giorno per giorno – attraverso la struttura primaria della famiglia, il tipo di morte a cui la condanna la sua collocazione sociale, lo spazio fisico che ha a disposizione in vita, sono elementi altrettanto importanti, per definirne l’individualità, di quelli relativi ai comportamenti e alle forme di lotta sul posto di lavoro”.
“Tra il livello di dissoluzione dell’istituto familiare per quei ceti sussunti sotto la definizione esorcizzante di “sottoproletariato” e la diffusione della piccola criminalità o di comportamenti “asociali” esistono rapporti più stretti di quanto comunemente si creda e il tasso della mortalità perinatale o la pratica dell’infanticidio non possono far a meno di influenzare la “filosofia” del proletariato relativa alla vita e alla morte. La percentuale dei suicidi ci può dare maggiori indicazioni sul malessere di uno specifico settore di classe che non la cronaca di uno sciopero, e il numero dei nati illegittimi in un quartiere può raccontarcela più lunga di una sommossa di piazza”.