cm. 19,5 x 11,5, pp. 186, brossura, autografo dell’autrice, timbro di possesso, in buone condizioni.
Per secoli – e, come sanno gli storici della demografia, fino ad anni vicini più di quanto comune mente si pensi la forma proba bile più diffusa di controllo delle nascite è stata una invisibile, poco clamorosa, e quindi poco urticante i pruriti dei moralisti: l’infanticidio, nella forma diretta del la uccisione dei neonati, e indiretta della «esposizione» sulle ruote dei conventi e dei pii orfanotrofi per gli infanti abbandonati. Per comodità della pubblica morale, era pratica diffusa esclusivamente tra i ceti popolari, «le classi pericolose e immorali», e circoscritta ulteriormente alla solitaria disperazione di donne senza voce socialmente percettibile. E se una denuncia rendeva pubblico il mi sfatto, era facile ascriverne la colpa solo alla bestialità di giovani già perdute, di femmine imprudenti e incompetenti perfino nel loro vizio. Quando poi la rivoluzione industriale iniziò ad assembrare nelle città la grande dispersione contadina, servette, operaie, cucitrici, vennero a popolare le periferie, questa non metaforica strage degli innocenti emerse inevitabilmente alla luce, cominciò ad assumere rilevanza statistica, e frequenza di casistica giudiziaria. Ed è sugli atti del tribunale di Trieste dell’ultimo trentennio dell’Ottocento, che Il baule di Giovanna costruisce i suoi mate riali per una storia dell’infanticidio, attraverso il racconto di un numero di storie e biografie di madri infanticide che, dall’entro terra slavo, la miseria spingeva verso il grande porto dell’Austria imperiale. Vicende esemplari, per una storia sociale della sofferenza. Ma anche soggetti di naturale forza letteraria, che sembrano venuti dalle pagine del Libro di devozioni domestiche di Bertolt Brecht.