Caratteristiche e condizioni:
cm. 25 x 17, pp. 190, copertina rigida con sovraccoperta e fascetta editoriale conservata, in ottime condizioni.
Contenuto:
È presunzione scrivere una storia del ciclismo trascurando un po’ di epica e facendo un po’ di politica? È reato collocare la bicicletta in un contesto storico assoluto, e non solo nel relativo dei suoi miti, delle sue chansons de geste? Forse sì. Proprio per questo è stato scritto da Gian Paolo Ormezzano un libro così. È un libro forzatamente incompleto, perché la storia del ciclismo, se orpellata di tutte le sue storielle, avrebbe spessori da enciclopedia. Ma è un libro che fissa alcuni punti fermi, stabilisce alcuni surplace in vista di altre volate. La storia del ciclismo comincia come storia della bicicletta, finisce come storia di uomini, sia quelli che pedalano, sia quelli che guardano (o smettono di guardare, o riprendono a guardare) quelli che pedalano. Nel libro c’è l’invenzione – chiamiamola così – della prima bicicletta, e c’è la perdita dell’ultimo campione, facciamo Eddy Merckx. C’è la vicenda di uomini che ne fecero delirare altri, e ci sono tentativi di esame di questo rapporto ipnotico fra il ciclista e la massa. C’è il ciclismo spicciolo e c’è quello corale mobilitante intere nazioni. È un libro che racconta di capitani che combattono più dei soldati, di fachiri senza letto di chiodi, di sudori che segnano la strada a chi segue e insegue, ogni goccia come un chicco lasciato cadere da Pollicino. La storia del ciclismo può persino permettersi il lusso della grondante retorica, tanto continui sono i suoi bagni di umidità. Nel libro ci sono Gerbi e Girardengo, Binda e Guerra, Bartali e Coppi, Gimondi e Moser, ma ci sono anche quelli che li attesero per ore su una strada, satolli già solo per vederli sbucare dalla curva e passare facendo vento. Ci sono i Giri di Francia e d’Italia, c’è il neon della pista, ci sono le dolenzie di gambe e i fervori di spirito. Una storia del ciclismo andava scritta, come omaggio e documento: anche se alla fine, sotto il peso dei ricordi e dei rimorsi (quanti crediti ha questo sport nei riguardi della marmaglia che siamo!), chi l’ha scritta si è scoperto stanco, dolente e gobbo, come un ciclista che scende di bici dopo una lunghissima corsa. E anche se, oltre a scoprire che non è cambiata la bici, pur essendo passata dal legno al titanio, si scopre che non è cambiato l’uomo che sta sulla bici, o si scopre che tornando alla bici l’uomo torna quello che era: lì per lì questo non sembra progresso, ma pare che da un po’ di tempo non cambiare significhi progredire, o almeno non regredire e quindi trovarsi nelle posizioni di testa del plotone.