cm. 20,5 x 14, pp. 270, brossura, una macchia al piatto posteriore e qualche leggera traccia d’uso, in buone condizioni complessive.
Nel febbraio del 1962 Allen Ginsberg sbarca a Bombay insieme al poeta Peter Orlovsky, suo compagno di una vita. È la tappa decisiva di un lungo viaggio iniziato nel 1961 a Parigi e proseguito a Tangeri, in Grecia, Israele e Kenya. Resteranno in India fino al maggio del 1963.
Ginsberg, assetato di religioni, tradizioni e paesaggio, osserva con lo stesso rapimento le pire accese sulle rive del Gange – avvolte da una nebbia rossastra e sulfurea –, le fumerie d’oppio e una tazza da tè annerita dal tempo, appesa a un chiodo su un muro ammuffito.
Attraverso il caleidoscopio partecipe, vorace e allucinato di Ginsberg, l’India si mescola costantemente all’America, «strabica creatrice del Mondo Moderno». È così che la Statua della Libertà si trasforma, in una visione caustica e carnevalesca, nel corpo della dea Kālī, reggendo in ognuna delle sue innumerevoli braccia un simbolo della civiltà occidentale: una sedia elettrica sospesa su Wall Street, un razzo spaziale, uno schermo televisivo. Ed è dall’America lontana che riemerge costante il ricordo dei compagni della Beat Generation: Kerouac, Cassady, Burroughs e Corso.
Ma Diario indiano non è solo il resoconto di un viaggio on the road attraverso un paese enigmatico e antichissimo che sta uscendo dal colonialismo. È un’opera compiuta che documenta la ricerca spirituale di uno degli scrittori più emblematici del Novecento.