cm. 23,5 x 16, pp. 306, brossura, in ottime condizioni.
Per la cultura occidentale l’impero romano è stato e resta l’impero per eccellenza e dunque anche lo specchio in cui si riflettono i tratti inconfondibili di tutti i possibili imperi, contemporanei compresi. Ma la novità principale di Hopkins non è il tema (anche se le siniesi storiche sull’impero romano che possono stargli al pari si contano sulle dita di una mano), ma lo strumento con il quale l’affronta, è la scelta della radiografia e l’abbandono del ritratto. Allievo ideale di Max Weber e reale di Moses Finley, Hopkins usa la sociologia per penetrare oltre la superficie colorito e scintillante delle res gestae e raggiungere le nervature nascoste, i metabolismi profondi che prima consentirono alla struttura imperiale di costruirsi e di consolidarsi e garantirono poi l’equilibrio e la stabilità. Sfilano così nelle pagine di Hopkins i segreti meccanismi della conquista, dell’accumulazione di ricchezza, dell’esercizio del vero potere affidato spesso alle mani silenziose degli eunuchi di corte. Ma sfilano anche i grandi connettivi ideologici, il sogno di libertà degli schiavi che, come Hopkins dimostra, costituiva il più efficace mezzo per riprodurre la schiavitù, gli imperatori trasformati in dei per dare a un universo geograficamente e culturalmente diviso l’unico possibile baricentro simbolico.