cm. 21,5 x 13,5, pp. 232, brossura con sovraccoperta, lettera “S.” al frontespizio, in buone condizioni.
Qualche anno fa, Luigi Compagnone aveva scritto un Commento alla vita di Pinocchio (Marotta, Napoli 1966) nel quale i significati delle avventure del famoso burattino erano criticamente indagati; e più che l’acume, o il gusto delle analogie e dei confronti, colpiva in quelle pagine un’oscura inquietudine, un che di sconfortato e rabbioso di fronte al rovescio buio di quell’apologo che si concludeva nell’incarnarsi di un burattino in un ragazzino per bene, come in un lieto fine. Oggi lo scrittore, mosso dalla medesima, inappagata sfiducia verso la Storia, tenta ambiziosamente una prova più risolutiva: e riscrive Pinocchio. Il lettore non si fermi al primo significato del rovesciamento dell’apologo, per cui Pinocchio, nel momento in cui diviene «perbene», è perduto: questo elemento ottocentesco di moralistico sdegno contro i «galantuomini», caro alla tradizione meridionale, esiste, ma non è al centro dell’ispirazione del Compagnone. Questo Pinocchio è audacemente messo a confronto (con un linguaggio ironico nel quale tuttavia la dissacrazione propria del nostro tempo è sopraffatta da una più profonda amarezza che ne brucia poeticamente la patina sociologica), Pinocchio è messo a confronto, alle prese, con «miti» grandi e piccoli, gli Evangelisti, Giona, Medea, Marx, Freud, il Lager, l’arca di Noè, la proprietà privata, la scuola, il fascismo, la violenza, la mafia: c segue l’itinerario febbrile che la povera sostanza umana di ciascuno di noi è costretta a tracciarsi tra menzogna e verità. La Storia, per Compagnone, razionalista e ribelle, è al tempo stesso tutta verificabile e inconsulta. Di qui il suo trasformare il timbro di bonaria e civile arguzia toscana del Collodi in una lingua stravolta, al limite della rabbia, che dà cittadinanza all’assurdo nell’atto stesso di rivoltarglisi contro.