cm. 22,5 x 14, pp. 214, copertina rigida con sovraccoperta, in ottime condizioni.
Sardegna, anni Cinquanta. Raimondo Quesada è il rampollo di una ricca e vecchia famiglia. Corpo estraneo a essa, come a tutta la piccola ma complessa società locale. Rifiuta la corte lunga e assidua del la quasi cugina Paola e mantiene invece in «Continente», a Roma, una donna emi grata dal paese, dalla quale ha un figlio. Scomparirà in modo triste e misterioso, così come in modo triste e misterioso ha vissuto. La rievocazione della sua vita ha il passo di una ricerca frantumata in mille materiali sfuggenti (lettere, ritagli di giornali, volantini elettorali, verbali dei carabinieri) e in tre blocchi temporali (1950, 1957-58 e infine, morto Raimondo, 1966). Prospettive cangianti: quali verità? Il po’ di luce che si cerca di gettare sul personaggio cade su quanto gli sta attorno. Subito, appunto, la famiglia: uno zio uomo di spicco della politica d’una provincia, trombone archeologico e quasi incolpevole trasformista; una zia dolce e svanita; una madre troppo libera e infelice, fuggita di casa con scandalo; un padre morto troppo presto, mai conosciuto; Maria, la mantenuta, sfiorata fin da bambina dalla violenza e dal disprezzo, di classe e sesso; e poi riti di circoli cittadini, luoghi di vacanza oltremare, minimi cabotaggi di beghe, politiche e no: ma soprattutto i paesaggi remoti e i silenzi del Montiferro. Quanti anni di solitudine? Vero protagonista della storia, forse, è il tempo. Che, mentre offre ipotesi di cause ed effetti, imbroglia le carte, disperde il senso (Toma l’autunno già… ripete la canzonetta di un’età d’oro). I tre blocchi temporali si intrecciano continuamente: avanti e indietro proprio come il trenino del Montiferro. Come i sentimenti che mutano, le cose che trovano la loro «morte naturale» nel non essere più se stesse. Mentre il vero assente, in un romanzo sull’assenza e sulla fuga, è un definito punto di vista della narrazione. Il singolare fascino del libro è dato dalla sua tonalità, una sorta di falsetto continuo, che viene dalla mistificazione dell’identità di chi sta dietro le parole, dal variare delle maschere e dei trucchi. Il pudore e il gusto delle sfumature si confondono con l’ambiguità. È il disperato, epico sforzo di dividere «la vita» in più vite; e di raccontarla fuori dai calchi e dagli schemi dell’io, qualsiasi io. Memore forse, Mannuzzu, di come definiva l’io Gadda: «il più lurido di tutti i pronomi».