cm. 22 x 13,5, pp. 260, brossura, in buone condizioni.
Un mistero affascina i contemporanei: come mai l’impero austroungarico, che “se non ci fosse stato, si doveva inventare”, decadde così perentoriamente? Quell’impero ha lasciato in molti una nostalgia politica e sentimentale. Perché è scomparso mentre sono sopravvissute la Francia, l’Inghilterra e la Germania? Questo libro tenta di spiegarlo.
La verità è forse che il fascino di quell’esperienza storica e le ragioni della sua decadenza hanno le stesse radici. Prima Metternich poi Francesco Giuseppe avevano chiuso gli occhi alle esigenze liberali. Pacifico per indole e reso ubbidiente dall’educazione cattolica, il popolo austriaco chiuse gli occhi davanti al fatto che Francesco Giuseppe aveva chiuso i suoi. Avvenne il grande transfert culturale: l’alienazione frivola e civile del valzer, della musica, dell’operetta.
Ma la rivoluzione covava e si espresse per vie più pro- fonde: Freud scandagliò i segreti dell’inconscio, Schönberg rivoluzionò la musica, Klimt l’arte figurativa, Wittgenstein il linguaggio, Loos l’architettura: una grande rivoluzione pacifica.
L’impero che sin d’allora era concepito come un bastione contro l’espansionismo russo fu incapace di darsi un’unità politica: restò un’espressione geografica. Uniti solo da una civile spensieratezza, gli austriaci danzavano su quella che Karl Kraus definì “la stazione meteorologica per la fine del mondo”. Dall’imperatore all’ultimo dei cittadini, tutti aspettavano felici e disperati la fine inevitabile: era la Gaia Apocalisse.