cm. 18 x 11, pp. 308, brossura, in ottime condizioni.
Dove e come sia morto Boris Pilnjak ancora non s’è saputo. La rivista sovietica “Moskvá” nel maggio del ’64. pubblicando un capitolo di un romanzo inedito di Pilnjak, parlò genericamente della tragedia dello scrittore travolto dalle conseguenze del “culto della personalità” staliniana. É probabile che sia stato arrestato tra il ’37 e il ’38, mandato in campo di concentramento ed eliminato, assieme alla moglie, un figlio e una figlia. Una fine tanto oscura chiuse un’esistenza che era stata tumultuosa, agitata, corsa dal vento dell’inquietudine, dell’avventura e dal gusto per i colpi di scena. L’accesa coloritura slavofila della sua partecipazione alla Rivoluzione lo aveva portato molto presto a dibattersi sempre piú convulsamente nella morsa dell’ortodossia; il brillante “compagno di strada,” che era stato per qualche anno quasi un modello per la nuova letteratura in Russia, s’era fatto stritolare dagli ingranaggi repressivi dell’implacabile meccanismo burocratico. Sequestri, reprimende, autocritiche, rielaborazioni, tentativi di rieducazione e goffi allineamenti: le aveva passate tutte, le tappe di un convulso annaspare. Infine su lui era calata la mannaia del silenzio: nel 1939 qualcuno lo vide, e fu l’ultima volta, segar legna in un gulag di Medvezegorsk (la “Montagna degli orsi”) in Carelia, all’estremo nord della Russia, in un paesaggio da Oltre le foreste. Per il lettore che oggi ripigli in mano le sue opere due sentimenti si accavallano: il senso di frustrazione che dà il sapere che un genio (e tale egli certamente fu, superiore, nel romanzo e nel racconto, agli stessi Babel’ e Bulgakov) è stato cosi crudelmente e stupidamente perduto: e l’euforia della sorpresa, perché in anticipo su tutti Pilnják aveva posto, e forse risolto, quei problemi di struttura della narrazione e di rapporto tra segno e metafora, e tra metafora e struttura, intorno ai quali si sono arrovellate in Europa intere generazioni di scrittori. Non sono soltanto le discrepanze tra l’ideologia comunista e la vocazione dell’autore a occuparsi solamente del “destino della Russia” a porre problemi al lettore (certi temi come quello del “partito comunista come semplice anello nella storia della Russia” sono ritornati più tardi in Il dottor Živago – e le pagine finali del romanzo di Pasternak sembrano una risposta provvisoria all’esclamazione dello scettico di Terza capitale di fronte alla rivoluzione: “Chissà cosa ne verrà fuori in futuro!” – come in tutta la letteratura del dissenso degli anni Sessanta e Settanta). Oggi ad appassionare è anche la “prosa senza soggetto” che i critici stalinisti gli rimproveravano. “Le parole sono per me come le monete per il numismatico,” scrisse Pilnjak. Mai come in lui la crisi e la ricerca di nuove vie della prosa narrativa moderna avevano assunto un’evidenza tanto sontuosa.