Caratteristiche e condizioni:
cm. 19,5 x 12, pp. 318, copertina rigida con sovraccoperta, in ottime condizioni.
Contenuto:
La famosa asserzione di Dostojevskij: «Noi tutti siamo usciti dal cappotto di Gogol», può essere fatta propria da Stelio Mattioni senz’aver affatto l’aria di una riesumazione, tanto naturalmente i suoi impiegati di non ben definiti uffici triestini si rivelano eredi della grande famiglia degli impiegati pietroburghesi o moscoviti di Gogol, del Dostojevskij giovane o del primo Cechov, dei quali rinnovano i tratti con una angosciosa trepidazione psicologico-esistenziale tutta moderna. I cinque lunghi racconti con cui si presenta al pubblico questo nuovo scrittore, quarantenne, triestino, di professione impiegato, vissuto finora lontano dalla letteratura e dagli ambienti letterari, sono un prodotto poetico quanto mai raro e curioso: perché questo humour grottesco e straziato, che si condensa in figure e situazioni sempre molto concrete e visibili — la testa di gallo del pensionato che non vuole invecchiare, la bianca cameretta dell’impiegato che non vuole diventare adulto — affiora sul flusso d’un rendiconto psicologico meticoloso, redatto con una sintassi e un lessico quasi da verbale. Più che la situazione stilistica degli scrittori triestini (tanto discussa fin dalla scoperta dell’affascinante «scriver male» di Svevo) qui è da mettere in causa una sorta d’ossessione di compiutezza burocratica dell’impiegato Mattioni. E in essa bisogna seguirlo con assoluta fiducia, perché, quando meno ce lo si aspetta, dalla prosa più grigia salta fuori un’immagine folgorante per intensità e pregnanza poetica, sul tipo di: «e il verde delle sue calze di lana lo offese», oppure succede qualcosa che ha la pura forza comica dell’imprevedibile e dell’ingiustificabile, come il saluto militare con cui si congeda l’impiegato timido dalla ragazza che finalmente s’è deciso ad abbordare per strada, o quando i due camionisti tirolesi stanno per sfogare il rancore reciproco a lungo covato prendendosi a pugni, ed ecco, sia l’uno che l’altro, si tolgono la dentiera e la posano sul tavolo. Ci accorgiamo allora che il potere di farci entrare in un mondo tutto suo, questo potere che è il segno dello scrittore vero, è la forza di Mattioni: egli trasfigura questo suo universo triestino di bora e d’intemperie attraverso una evocazione minuziosa di cucine e finestre e squallidi interni piccolo-borghesi e fermate dell’autobus e uffici pieni di scaffalature e cancellate di magazzini in una sorta di labirinto kafkiano. Ma queste filiazioni presunte sono azzardate, con uno scrittore isolato come Mattioni, che tutte le rifiuta, e se è proprio forzato ad ammetterne una, fa un nome che si incontra di rado negli alberi genealogici degli scrittori d’oggi: Pirandello.