Caratteristiche e condizioni:
cm. 21,5 x 13,5, pp. 190, brossura, in condizioni molto buone.
Contenuto:
Cosa resta di un’identità, una volta che il linguaggio e la religione sono scomparsi? H. Stuart Hughes, eminente storico della cultura, dimostra qui, attraverso l’opera di sei scrittori di origine ebraica nelle particolari ambientazioni urbane di Trieste e Roma, Torino e Ferrara, come questi scrittori siano giunti a una consapevolezza della loro caratteristica particolare, tesaurizzando una tradizione quasi impercettibile agli occhi estranei e fondendo l’atavica eredità ebraica con le più recenti esperienze della persecuzione antisemita.
La data di apertura, 1924, segna il primo grande successo letterario di un ebreo italiano, “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo. I dubbi e le ambiguità dell’atteggiamento di Svevo nei confronti delle proprie origini echeggiano nel primo romanzo di Alberto Moravia. Con l’avvento dell’antisemitismo fascista negli anni Trenta, gli scrittori si fanno più certi del proprio essere ebrei: i temi comuni della prigionia e dell’esilio ricorrono nell’opera di Carlo e Primo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli” e “Se questo è un uomo”. Il “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg e la vasta opera di Giorgio Bassani, che comprende “Il giardino dei Finzi-Contini”, descrivono con una solidarietà a un tempo tenera e ironica le vicissitudini degli ebrei italiani nei loro anni più travagliati.
La data del 1974 segna il completamento di questo ciclo di opere, che ha costituito la più notevole manifestazione dell'”età argentea” della creatività ebraica dal sedicesimo secolo a oggi. Soprattutto, Hughes dimostra perché gli ebrei italiani non possano non essere “prigionieri della speranza”: li rende tali il loro “ottimismo… nato dalla disperazione”, la loro brama di fondere l’universale con la propria identità ebraica.